Lamartine peint par François Gérard en 1831 (Versailles, châteaux de Versailles et de Trianon).

Lamartine peint par François Gérard en 1831 (Versailles, châteaux de Versailles et de Trianon).

Gian Paolo BORGHETTI

Bien que ses activités professionnelles et politiques aient souvent pris le pas sur son œuvre littéraire de son vivant, Gian Paolo Borghetti est aujourd'hui principalement connu comme l'un des plus grands poètes corses d'expression italienne.

 

Une grande partie de sa poésie est inspirée par ses convictions républicaines.

En 1848, il compose un canto lirico en l'honneur de Lamartine dont il était un grand admirateur.

A Lamartine

I.

Quando il torrente rapido Degli anni fuggirà,
E serie d’altri secoli
Dal tempo emergerà, Bello d’immensa aureola Di gloria immacolata

Il nome tuo magnanimo Nella remota tenebra, D’etade ancor non nata, Superbo iraggierà.

D’uom non avvezzo a sciogliere Il labbro a facil lode,
A te non spiaccia accogliere
La libera melode,

Nata sui balzi floridi
De’ miei superbi monti, Che allo stellato empiro Innalzano le fronti,
E dopo immenso giro, Di dileguate età,
Stanno con lungo gemito Chiamando Libertà,

Della mia Lira il suono Giammai non echeggiò, Ai piè d’odiato trono, Nè premj vi cercò. –

Di melodie fantastiche
Solo s’innamorò,
Pei mondi all’uomo incogniti Pellegrinando andò ;
O fra gli avelli taciti
Solinga discendea,

E l’onorata polvere Interrogar godea
Dei trapassati Eroi, Delle fuggite età,
O fur gli accordi suoi Nel turpe inetto secolo Sferza alla rea tirannide, Sospiri a Libertà.

Ma tu mi scuoti : – il fulgido Raggio che te circonda,
Di pure e sante immagini
Il mio pensiero inonda : Involontario fremito D’insolita armonia,

Del tuo gran nome al sonito, Manda la Lira mia,
E l’inspirata mente
Vibrar per l’aere sente Celesti arcane note,

Di santa melodia... Ah ! tutto è Poesia
O grande intorno a te.

II.

Dai recondite campi del mistero,
Ove l’occhio dell’uomo andar non può, Volge l’eterno l’immortal pensiero, Agli infiniti mondi ch’ei creò :

E del tempo, nei torbidi torrenti, Vede balzar i secoli, e l’età,
E vasti imperi, e nazion possenti, Seppellirsi ne mar d’eternità.

Monti alzarsi d’arena inospitale
Mira, sui lidi, ove Città fiorir,
E schiatte immense d’uomini, sull’ale Assidersi dei secoli, e fuggir.

L’Eterna lotta di contrarj eventi, Sola del volgo umano eredità,

E le varie fortune, e gl’ardimenti, Di colui, che tant’osa e nulla sa,

Lo spirto onniveggente del creato, Muto e pensoso contemplando sta, E di cotanta plebe, il vario fato Sulla gran lance equilibrando va.

Quando de’ vizj nella rea bufèra,
Che il Genio della morte concitò,
Vede qual sole in tempestosa sera
Perir quel raggio, ch’ei nell’uom soffiò ;

E d’ogni mal nella marèa funesta, Affondarsi il naviglio popolar,
Dagli alti suoi misteri alza la testa,
E in tutto il suo splendor ai Cieli appar.

Al balenar de’ raggi onnipossenti, Ove nuotando eternamente sta, S’empion di nuova luce i firmamenti, Di vita i campi dell’Eternità :

E a se chiamata la beata schiera
Di cui l’arcato empireo popolò,
Che vaga incorruttibile, e leggiera, Pe’ colli ov’il sol mai non tramontò ;

Scelto quant’avvi di più puro e santo In quella turba angelica, immortal, Vola, gli dice, alla magïon del pianto, Ed informa colà spoglia mortal.

Ergi l’Altar delle sublimi cose, Che dalla colpa rovesciato fu ; Edùca in quelle bolgie tenebrose, Il santissimo fior della virtù :

Squarcia del secol vile il fosco velo,
In cui l’avvolse l’angiolo del mal ; Cinto de’ raggi, ond’è sì bello il Cielo, Ti contempli l’attonito mortal.

Si desti il mondo a luminosa vita,

Sorga dal fango la codarda età,
E la stirpe dell’uomo imbastardita Scuota l’ignavia, che sì vil la fa.

Nel secol nostro, o santa creatura, L’un di quei divi spiriti sei tu, Dei colli eterni l’alma tua sì pura, Pria della terra, abitatrice fu.

È tanto il raggio che tua mente inonda, Ch’opra del cieco mondo esser non può ; Arcana forza sull’umana sponda
Per fine imperscrutabil t’inviò.

III.

Nell’ora che il sole declina morente Sul balzo turchino del chiar’occidente, E l’ultimo bacio depone sui fior,

Solingo m’assido sul colle romito : Contemplo de’ mari l’azzur’infinito, De’ Cieli sereni la luce che muor.

Sui vanni dorati di sogni, e misteri,
Che intender non sanno volgari pensieri, M’involo lontano dal cerchio terren.

Per mondi novelli, la mente smarrita, Da arcane melodi si sente rapita, L’obblio della vita – mi scende nel sen.

– Salve o bardo avventurato Certo un angelo t’inspira ! Tutto il Cielo s’è traslato, Ne’ concerti di tua Lira ; Sol tu puoi coi cari suoni, Di celesti illusïoni

La mia mente inebbrïar.

Io de’ Ciel con te m’aggiro, Sulle sfere ogn’or ridenti, Fra le curve dell’Empiro,

Pei stellati firmamenti ; Varco incognite colline, Orizzonti senza fine, Nuovi laghi, e nuovi mar.

Dappertutto io ti ritrovo,
O divino messaggiero :
Sempre grande e sempre nuovo, Tu t’affacci al mio pensiero, Soavissima risuona,
L’ineffabil tua canzona,
Nei recessi del mio cor.

L’Universo è tuo domino : In te tutto si trasfonde.
Al tuo cantico divino Ogni musica risponde :

La tua vasta fantasìa,
Si fa propria ogni armonia Dei celesti trovator.

Maestoso a me ti sveli Nelle gioje del creato ; Ti contemplo là de’ cieli, Per l’azzuro interminato, Nella spoglia dell’aprile E nel murmure gentile Di tranquillo fiumicel.

Melanconico ti sento
Nel sussurro delle fronde ; Nella lieve ala del vento,
Che scherzando va coll’onde ; Sei nell’alba rugiadosa,
Nei colori della rosa,
Nella nota dell’augel.

Nella calma ti ravviso Della placida laguna, Delle stelle nel sorriso, Negli argenti dell aluna, Nello scroscio del torrente, Della limpida sorgente Nel continuo lamentar.

Del mattino io ti saluto Nel bel raggio avvinatore, Nell’armonico liùto
Del notturno trovatore, Ne’ silenzi, nei secreti Della notte, dei pianeti Nel perpetuo scintillar.

Finchè il mondo avrà un palpito di vita E che il senso del bel conserverà,
In estasi gentil sarà rapita
Ogn’alma che il tuo canto ascolterà.

IV.

Il secol che nascendo andò sull’ale D’una gloria immortale,
E balzò nella polvere cruenta, Gridando libertade,

I tiranni del mondo,
Balzato era nel fondo
D’un abisso fatale,
E là sorbiva il micidial veleno,
Che il vizio immondo gli versava in seno.

Il Genio della Francia, a cui dal fato Tanto raggio fu dato,
Fu da ciurmaglia infame
Capovolto nel fango, e trafficato. Vergogna e scelleranza, erser la fronte Sulle franche contrade,

E alzar trono esecrando
Al lucro e alla viltade. –
Virtude e Libertà, sante sorelle,
Fur derise e neglette,
Avvilite sferzate e maledette,
E poscia fur dai rei cacciate in bando.
Allor dai regni Eterni delle stelle,
Visto fato sì atroce e miserando
Torse Brenno lo sguardo, e ruppe il brando.

Si vide allor fra noi quanto nel mondo,

Fu di sozzo e d’immondo,
Nei tempi i più codardi ed infelici. Emerse dall’inferno orrido nembo D’infamie e colpe, e fù più reo di quello Che stracciò a Roma il lembo,
E spogliata gittolla in turpe avello :
Del reo poter, che avea di Francia il fato Avvilito, sfregiato,
E sepolto nel lezzo,
Si fer compagne ed impudenti drude. D’ogni cosa gentil fra tanto sprezzo,
E fra tante laïdezze, oscene, e nude,
Il pudor santo si fe’ agl’occhj un velo, Coi vanni d’oro, e rifuggissi in Cielo.
Il rio stuol dei potenti a cui virtude, Deità deturpata,
Avea volta la fronte immacolata, Mercando andaro in vergognosa gara, Titoli, e servitude,
E la corruzion, nefanda dea,
Vittime, altari, e sacerdoti avea.

Accesso, allora, di magnanim’ira Deponesti la lira,
E sui rostri salito,
Demostene novello,

Fulminasti cotando vitupero
Colla voce del vero.
E plause Francia e sbigottissi il soglio, D’ogni vergogna divenuto ostello.
Il tuo parlar gagliardo,
Entrava in sen, de’figli dell’orgoglio, Come infuocato dardo.
Il Mostro incoronato
Ti guardò bieco, e morse ambe le labia, E divorò la prepotente rabbia,
Che nel sen, d’ogni colpa rea macchiato, Gli traboccò qual torbido torrente
Di lava ardente.
Contro te, o Francia, e i generosi,
Che il sentier dell’onor teco seguiro,
Fur visti congiurar tutti gli esosi,
Oridi e sconci mostri,
Quali non vider mei, che i tempi nostri,

E baldanzosi offriro in turpe agone, Alla virtude micidial tenzone.

Ma stanca alfin di Dio la sofferenza, Pronunciò la sentenza,
Terribile, fatal, contro la rea Incoronata stirpe,

E a caratteri ardenti
In ogni cor non vile ei la scrivea. Allo, siccome al tempestar dei venti, I suoi vortici algosi,
Nel suo furor solleva l’Ocèano, Vedesti immense schiera,
Del gran popol sovrano,
Alzar la fronte minacciosa altera,
E rovesciarsi fiera
Nell’ira sua tremenda, Sull’abborrito trono,
A cui più omai non resta,

Nel cozzo orrendo di cotal tempesta Speranza di salvezza, e di perdono. Spiega Giustizia la fatal bandiera Fra le calde rovine,

Dell’ire cittadine,
E le stragi, e i cadaveri, dov’era Poc’anzi il soglio,
Ebbro d’ira e d’orgoglio,
E la pianta invincibile e possente, Ove scorre di sangue ampio torrente.

Fra ’l furor, lo spavento, e lo scompiglio, Il tumult, il periglio,
Del popol minaccioso e trionfante, Sorgesi qual Gigante. –

L’angiol di Francia t’iraggiava in fronte, E da’ tuoi labbri così largo usciva,
E sì possente d’eloquenza il fonte,
Che l’onda popolar, qual Dio, t’udiva. Per te dolce scendea

Nel turbinìo della fatal procella, Calma serena e bella. –
Dalle sfere lucenti allor sciogliea Vol placido, e gentile augusta Dea, Chen el volto sublime, e maestoso,

Tutta dei cieli la grandezza avea.
E s’inchinaro i popoli redenti,
Alla Formosa Donna,
Che dopo volto il tergo , a Sparta, a Atene, E a la possente Roma,

Fra il pianto, e le miserie dei viventi,
E le orrende catene,
Della terra schernita, oppressa, e doma, Col suo divin sembiante,

In cui, tanta di ciel bellezza ride, Le genti a confortar più non si vide.

Or che fuggì per sanguinosa via La orrenda tirannìa,
E fe’ ritorno a noi la sua mortale, Sospirata nemica,

O grande almen, non sia
Il suo reddir fra noi,
Una menzogna, un’illusion fatale,
Un abisso profondo
Schiuso, a inghiottir tanto sospir del mondo ! Le sue grandi speranze in te ripose,
La patria nostra, nel fatal momento,
Onde il trono fu spento.
O magnanimo spirto, a te son noti
Tutti i nemici suoi, –
Codardi avanzi di possanza rea,
Non son fratelli a un popolo d’Eroi.
Se nel dì del trionfo, ei furon vinti,
Non rimasero estinti,
E stan covando in mente odj e disdegni,
E speranze colpevoli, e disegni
Di nefandi trionfi, e di rovine,
E appagati rancori,
Quai forse l’universo mai non vide,
Nelle fatali età de’ suoi furori.
Già già sbuca dall’ombre il sozzo sciame, Che porta in fronte audacemente scritto,
Il reo progetto infame,
Del maturo delitto :
Non fia però ch’egli si compia mai. –
La Patria ardir novello,
Nel nembo troverà de’ suoi perigli ;
Di libertade i figli,

Se sanno perdonar, puro anco sanno Punir, se astretti a tanto un dì saranno. Se sui rottami dell’infranto trono, Dispiegaro il vessillo,

Di Pace e di perdono,
Quello delle vendette innalzeranno.
E allor !... Sui fati suoi
Non dorme ancor, la schiatta degl’Eroi. – Ma tu che tanto puoi spirto sovrano,
Con quel parlar, che invano
Mai non suona a ch’il sente,
Gl’odj tremendi attùta,
E disperder ti attenta i rei disegni,
D’una turba funesta e sconsigliata,
A reo poter venduta,
A vil servaggio nata.
Ma se tutto fia vano,
E se destar n’è forza i nostri sdegni, Apprenda alfin quella ciurmaglia stolta, Che scendemmo a pugnar l’ultima volta.

Ricacciatu da BORGHETTI G. P., A Lamartine. Canto lirico, Bastia, Tipografia republicana diretta da Antonio Leonetti, 1848, p. 3-16.

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